La CINA e l'indipendenza nazionale Araba
- Resistenza Popolare
- 23 ore fa
- Tempo di lettura: 27 min
Pubblichiamo come contributo alla conoscenza della Repubblica Popolare Cinese, della sua storia e della sua visione internazionalista, questo articolo di Yin Zhiguang, il cui titolo completo sarebbe Il momento internazionalista. L’indipendenza nazionale araba nella prospettiva della rivoluzione cinese e la formazione di una visione del Terzo Mondo. L’articolo è stato tradotto dal nostro compagno Alberto Rotundo e si mostra utile anche per trarre spunto per costruire iniziative concrete di sostegno internazionalista ai popoli oppressi dall’imperialismo e in lotta per la propria indipendenza.
Riassunto
Questo articolo esamina la formazione del discorso internazionalista del Terzo Mondo cinese e la sua articolazione dell’ordine mondiale moderno, radicata nella comprensione rivoluzionaria cinese del movimento d’indipendenza nazionale arabo. Attraverso gli strumenti della storia intellettuale e degli studi culturali, si analizza come il movimento nazionale arabo "anti-imperialista" sia diventato parte integrante del processo di ridefinizione delle "visioni del mondo" nel contesto rivoluzionario cinese. Questa conoscenza ha contribuito ulteriormente alla costruzione della soggettività politica del "popolo cinese", mobilitando la partecipazione politica di massa e promuovendo un’identità internazionalista fondata sulla solidarietà globale tra i popoli. In questo processo, la proposta di "internazionalismo" è stata intessuta nell’esperienza politica dell’"indipendenza nazionale".
Parole chiave
Internazionalismo, Terzo Mondo, Nazionalismo, Movimento di indipendenza nazionale arabo, Guerra Fredda

Interpretazioni della Guerra Fredda e la destrutturazione dell'Internazionalismo
Questa lettura utilitaristica della teoria ideologica — radicata nelle assunzioni realiste e sviluppatasi nel contesto della Guerra Fredda — è essa stessa diventata un discorso ideologico. A seguito dei fatti ungheresi del 1956 e dell’invasione sovietica di Praga nel 1968, la promozione da parte dell’URSS del cosiddetto “internazionalismo socialista” e “internazionalismo proletario” fu sottoposta a un’intensa critica intellettuale occidentale, venendo riletta come uno strumento di propaganda sovietica. Parallelamente, critiche interne al blocco orientale nei confronti dello sciovinismo russo demolirono sempre di più l’“internazionalismo”, un tempo ideale comunista di ordine mondiale, rivelando come fosse in realtà una maschera per l’egemonia sovietica — una forma di “pseudo-internazionalismo”. L’accademia occidentale accolse rapidamente questa rozza centralità russa sotto la categoria del “problema nazionale sovietico”, diagnosticandola successivamente come un fattore chiave del collasso imperiale dell’URSS. Nel quadro di quest’analisi, l’internazionalismo fu ridefinito come un meccanismo di egemonia imperialista/coloniale sovietica, mentre le collaborazioni politiche del Terzo Mondo sotto la sua bandiera furono liquidate come “infiltrazioni comuniste”. Le attuali nuove narrazioni basate sulla Nuova Guerra Fredda riprendono largamente le assunzioni degli anni '60. Da una prospettiva tradizionale di sicurezza occidentale, l'“internazionalismo proletario” è riduttivamente interpretato come uno strumento dell’esportazione rivoluzionaria sovietica, intrinsecamente contrario ai movimenti nazionalisti-sovrani. Sul piano geopolitico, esso servì agli interessi sovietici a scapito di altri Stati. I recenti dibattiti sull'internazionalismo attingono anche dagli studi sulle memorie del blocco orientale durante la Guerra Fredda, collegando le politiche del periodo staliniano riguardo al “problema nazionale” a strategie scioviniste che imponevano disciplina interna al blocco, autorità centralizzata e aspirazioni globali sovietiche. Si può argomentare che, come discorso che immagina un futuro ordine mondiale e promuove l’uguaglianza politica tra esseri umani, il concetto di internazionalismo, dal mezzo degli anni ’60, sia stato costantemente oscurato dal confronto geopolitico tra Stati Uniti e URSS. Con la fine della Guerra Fredda, l’impegno politico internazionale basato sul pragmatismo è diventato normativo. Il paradigma teorico realista delle relazioni internazionali ha ridefinito in chiave pragmatica molte iniziative domestiche ed estere del XX secolo originariamente ispirate a ideali internazionalisti. Per decenni le discussioni sulla decolonizzazione e l’indipendenza nazionale del Terzo Mondo sono state largamente confinate a quel paradigma che Fred Halliday ha definito “bipolar contest” (confronto bipolare). La limitazione fondamentale di questo modello interpretativo realista sta nei vincoli a priori posti sull’agire politico e l’impatto storico. Esso presuppone che: 1. L’obiettivo principale degli Stati-nazione negli affari internazionali sia “cercare opportunità per dominare i propri avversari”; 2. Che la sopravvivenza e la sicurezza di uno Stato dipendano in massima parte dalle capacità militari-materiali e dalle alleanze geopolitiche. All’interno di questo schema, l’impegno sovietico nel Medio Oriente è stato ridotto a mero manovrare geostrategico. Al contrario, le attività internazionaliste cinesi in quella regione — prive di interessi geopolitici diretti — sono state interpretate o come rivalità intra-blocco per il controllo rivoluzionario, oppure, come alcuni studiosi anglofoni sostengono, come riflesso di divergenze strategiche nella prassi rivoluzionaria. Le ricerche più recenti hanno messo in evidenza le loro diverse concezioni dell’“anti imperialismo”, individuandovi il nucleo del contendere: • La posizione sovietica (successiva alla “Triplice Pace” kruscioviana) considerava il trionfo del comunismo sul capitalismo come storicamente inevitabile, con l’anti-imperialismo relegato a ruolo secondario. • La narrazione rivoluzionaria cinese, invece, poneva l’anti-imperialismo come questione assoluta — sia eredità della memoria rivoluzionaria cinese che minaccia esistenziale durante il proprio sviluppo. Questa divergenza nell’identificare la “contraddizione principale” della rivoluzione mondiale si manifestò nelle loro opposte posizioni sui movimenti d’indipendenza del Terzo Mondo, in seguito teorizzate come un conflitto tra due tipi di rivoluzione. Inoltre, l’impegno cinese verso il Terzo Mondo fu spesso: • Assorbito sotto narrazioni di interventismo delle grandi potenze, • Oppure reinterpretato nel dopoguerra fredda (soprattutto dopo le Riforme e l’Apertura) come prova dell’ascesa della Cina volta a sfidare l’equilibrio di potere esistente.
Parte I – Dalla rivoluzione orientale alla lotta per l’indipendenza nazionale
Il Partito Comunista cinese ha cominciato a prestare attenzione al Medio Oriente prima della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Questo interesse politico verso la regione rifletteva da vicino l’ondata di movimenti nazionali di indipendenza arabi che emersero nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, durante il declino dell’ordine imperialista coloniale esistente e la graduale formazione di un nuovo ordine egemonico. Fu precisamente attraverso le narrazioni, le risposte e le discussioni provenienti dalle organizzazioni comuniste, dagli intellettuali, dai vari gruppi etnici e da diversi settori della società che la rivoluzione cinese, inizialmente guidata dall’obiettivo dell’indipendenza nazionale, si collegò gradualmente ai grandi cambiamenti nell’ordine storico globale. Questa connessione tra la storia cinese e il destino della liberazione umana divenne una base fondamentale per immaginare una comunità internazionalista all’interno della Rivoluzione Comunista cinese. Dal punto di vista ideale, il compito rivoluzionario di “costruire una nuova Cina” era strettamente legato alla più ampia proposizione di “creare un nuovo mondo”. Come questione di coscienza critica, questa connessione è stata costantemente presente nei dibattiti degli intellettuali cinesi. Sia la descrizione di Kang Youwei della “grande armonia mondiale”, sia l’espressione dell’ideale dell’uguaglianza umana di Sun Yat-sen sono state componenti organiche dell’evoluzione storica della visione cinese dell’ordine mondiale nel processo di modernizzazione. Secondo Mao Zedong, il rapporto tra Cina e mondo rappresentava il rapporto tra il punto di partenza e l’obiettivo a lungo termine di una grande trasformazione. Nella riunione di Capodanno della Società Xinmin nel 1921, Mao dichiarò che “riformare la Cina e il mondo” aveva un valore maggiore rispetto a “riformare l’Asia orientale”. Spiegò che parlare del mondo serviva a chiarire che “la nostra posizione è internazionalista”; menzionare la Cina invece serviva a indicare chiaramente “dove dobbiamo agire”. Secondo Mao, la questione cinese era essenzialmente una questione globale; se la riforma della Cina non avesse tenuto conto della trasformazione globale, sarebbe inevitabilmente rimasta limitata e avrebbe danneggiato gli interessi globali. Per lui, l’internazionalismo significava “desiderare il bene non solo per sé stessi ma anche per gli altri”, in altre parole, volere il bene per tutti. Al contrario, il colonialismo rappresentava “volere il bene solo per sé stessi e non per gli altri”, in sintesi, perseguire il proprio interesse a scapito degli altri. Tuttavia, questa comprensione dell'“internazionalismo” basata sull’esperienza cinese differiva profondamente da quella delle potenze europee, poiché essa si fondeva direttamente con la pratica della liberazione popolare e la costruzione dello Stato. Mentre l’internazionalismo sovietico fu progressivamente visto come uno strumento di espansione imperiale mascherata, l’internazionalismo cinese, specialmente dopo il 1949, cercò di distinguersi proponendo un modello alternativo — non centrato su una leadership centrale o su un blocco politico, bensì sulle lotte di liberazione dei popoli oppressi. Questa concezione dell'internazionalismo si sviluppò parallelamente al concetto di Terzo Mondo, e trovò terreno fertile negli anni ’50 e ’60, grazie anche alle esperienze condivise con i movimenti anticoloniali in Asia, Africa e America Latina. L’idea che il comunismo fosse una forma universale di liberazione sociale e nazionale si diffuse rapidamente tra le élite rivoluzionarie cinesi, soprattutto grazie alla lettura marxista-leninista del materialismo storico. Tuttavia, la specificità della condizione cinese — caratterizzata da un passato imperiale, una frammentazione interna, e una lunga resistenza al colonialismo giapponese ed europeo — impose una reinterpretazione originale del concetto di internazionalismo. La Rivoluzione cinese non si presentava semplicemente come parte di un fronte comunista unitario, ma come una forza motrice capace di dialogare con altre forme di anti-imperialismo, anche non marxiste. Questo atteggiamento si manifestò chiaramente nelle relazioni con il mondo arabo, dove la Cina vide nella lotta palestinese, nella resistenza egiziana e nei movimenti di liberazione nord-africana una serie di esperienze parallele alla propria. La solidarietà internazionalista non fu mai astratta o meramente ideologica: essa si incarnò in una rete di pratiche concrete — dalla stampa al cinema, dal commercio al supporto diplomatico — che diede vita a una sorta di “simultaneità internazionalista” tra movimenti di liberazione geograficamente distanti, ma politicamente allineati contro il dominio occidentale. La guerra di Resistenza giapponese (1937-1945) e la successiva guerra civile tra Kuomintang e Partito Comunista (1946-1949) fornirono l’occasione per testare questa visione internazionalista. Il Partito Comunista, pur mantenendo rapporti con Mosca, cominciò a sviluppare un discorso autonomo che vedeva nella lotta nazionale un momento inseparabile da quello globale. In questo senso, l’indipendenza nazionale non era fine a sé stessa, ma un tassello fondamentale nella ricostruzione di un ordine mondiale multipolare e giusto. Questa visione si articolò in modo sempre più definito a partire dagli anni '50, quando il governo cinese cominciò ad assumere una posizione attiva nei confronti dei paesi del Terzo Mondo. L’appoggio ai movimenti di decolonizzazione africani e asiatici non era solo un atto di solidarietà, ma una strategia per ridefinire la propria identità globale. Attraverso l’uso di simboli e retoriche comuni, la Cina si presentò come un partner affidabile per quelle nazioni che si opponevano al neocolonialismo occidentale e al bipolarismo USA-URSS. Un ruolo centrale in questo processo fu giocato dal “Patto di Bandung” (1955), in cui la Cina prese ufficialmente parte al movimento dei paesi non allineati. Da quel momento, l’internazionalismo cinese assunse una forma precisa: non più subordinata all’Internazionale comunista, la Cina cominciò a costruire un'immagine autonoma, fondata su una convergenza tra comunismo, anticolonialismo e auto determinazione dei popoli. Questa visione ebbe una ricaduta importante anche all’interno della Cina stessa. La diffusione di notizie, immagini e narrazioni riguardanti le lotte di liberazione nel Terzo Mondo non fu soltanto propaganda esterna, ma contribuì a plasmare la coscienza politica collettiva del popolo cinese. Essa fornì agli operai, ai contadini e agli intellettuali un orizzonte politico globale che andava oltre i confini nazionali, integrando la rivoluzione cinese in un quadro storico-mondiale più vasto. Inoltre, il concetto di internazionalismo si intrecciò con l’idea di classe. La solidarietà tra lavoratori del Nord globale e Sud globale fu interpretata come un elemento chiave per superare le divisioni nazionali e culturali. Questo portò a una ridefinizione del soggetto politico “popolo”, non più circoscritto alla dimensione nazionale, ma aperto a una comunità internazionale di oppressi. Tale evoluzione fu cruciale per il consolidamento del regime comunista interno, poiché legittimò la sua missione non solo come liberazione nazionale, ma come contributo a una causa universale. L’atteggiamento della Cina verso il mondo arabo si iscrisse in questo contesto. Già prima del 1949, il Partito Comunista aveva seguito con attenzione le rivoluzioni arabe e le lotte per l’indipendenza in Siria, Libano, Egitto e Palestina. Con la fondazione della Repubblica Popolare, questa attenzione si intensificò, dando vita a una serie di iniziative diplomatiche, culturali e mediatiche che collegavano le due aree sotto la bandiera comune dell’anti-imperialismo.
Parte II – Dall’indipendenza nazionale all’autosufficienza
Certamente, dal punto di vista della mobilitazione politica, per la Cina precedente al 1949 il significato politico della “rivoluzione mondiale” non appariva particolarmente urgente o importante. Il compito rivoluzionario della “lotta contro l'imperialismo” e della “lotta contro il feudalesimo” nella Rivoluzione cinese poteva essere direttamente riflesso entro i due fondamentali contesti storici delle lotte tra signori della guerra e della Resistenza giapponese. Di conseguenza, fino a un certo punto, la lotta armata stessa fungeva da forza integratrice, organizzando e unendo le diverse forze sociali provenienti da diversi strati, gruppi e regioni in un processo moderno di costruzione dell'identità nazionale. Allo stesso modo, possiamo osservare che, quando nel 1917 la Rivoluzione russa trionfò, il concetto di una “crisi capitalistica globale” comparve soltanto come premessa storica fondamentale all'interno delle narrazioni teoriche degli stessi leader rivoluzionari. Tuttavia, ciò che realmente giocò un ruolo decisivo nel successo della rivoluzione – e che svolse una funzione cruciale nell’organizzazione sociale e nell’integrazione politica – fu la comprensione dello stato economico russo e la ricerca, all’interno di questa crisi, di una strada che fosse vantaggiosa per l’intera popolazione. Fu precisamente questa esigenza che spinse Lenin ad avanzare la visione fondamentale secondo cui solo il “capitalismo statale” avrebbe potuto salvare la Russia. Inoltre, sebbene la proposizione dell’identità nazionale volta a “salvare la Russia”, apparentemente fondata sul nazionalismo, fosse radicata in considerazioni pragmatiche, Lenin riteneva comunque che sotto l’ideale della rivoluzione comunista esistesse una distinzione tra progresso e arretratezza. L’identificazione proletaria transnazionale era il nucleo determinante di questo carattere progressivo. Questo punto si riflette chiaramente nel dibattito tra Lenin e Rosa Luxemburg riguardo alla questione dell’autodeterminazione nazionale. In questo dibattito, l’argomentazione di Luxemburg si basava sulla sua valutazione della natura del nazionalismo polacco nel XIX secolo. Secondo lei, la base materiale del nazionalismo polacco nella prima metà del XIX secolo differiva fondamentalmente da quella dell’identità nazionale formatasi sotto l’influenza dello sviluppo capitalistico in Europa centrale. Il nazionalismo polacco, a suo avviso, “derivava da un’economia feudale poco sviluppata” ed era essenzialmente una conferma dello status sociale dell’aristocrazia dominante. Per Luxemburg, il nazionalismo moderno e lo Stato-nazione, come espressioni dei bisogni economici dei governanti, non possedevano intrinsecamente un valore progressivo. Al contrario, all’interno del sistema capitalistico mondiale del XIX secolo, l’industria polacca fin dall’inizio era dipendente: era un’industria orientata all’esportazione modellata da domande esterne. Di conseguenza, la borghesia polacca emerse come un “prodotto della colonizzazione”, un “corpo estraneo impiantato nel suolo polacco”, contraddistinto da un “chiaro carattere antinazionale”. Luxemburg concepì il colonialismo come una relazione egemonica formata durante il processo di globalizzazione capitalistica con regioni e nazioni più deboli e meno sviluppate. All’interno di questo quadro, il calore nazionalista formato in queste condizioni e gli Stati costruiti su tale entusiasmo non potevano diventare motore di cambiamento di questa disuguaglianza economica. Pertanto, questo concetto di nazione aveva sia caratteristiche utopiche che reazionarie. Lo Stato formato su questa base e le sue richieste di “interesse nazionale” divennero inevitabilmente l’espressione della volontà delle élite dominanti. Sulla base di questa valutazione, Luxemburg riponeva grandi speranze nell’unione di classe transnazionale. Ancora più approfonditamente, tentò di generalizzare il proprio punto di vista. Secondo lei, il concetto di “diritti delle nazioni” non dovrebbe essere utilizzato dai partiti socialisti come criterio per formulare la propria posizione nei confronti delle questioni nazionali. Dopotutto, concetti come “nazione”, “diritti” e persino “la volontà del popolo” erano sorti originariamente durante i primi confronti ingenui e privi di coscienza politica tra proletariato e borghesia. Nel contesto politico degli Stati europei deboli del XIX secolo, la questione nazionale, così come altre questioni sociali e politiche, era sostanzialmente una “questione di interessi di classe”. Per un proletariato organizzato e dotato di coscienza di classe, continuare a utilizzare questi concetti rappresentava una contraddizione storica. Questa comprensione del colonialismo come forma di rapporto di霸权 (hegemone) ha significativamente influenzato in seguito gli storici marxisti occidentali nella loro interpretazione del Terzo Mondo. Nelle analisi di L.S. Stavrianos, il Terzo Mondo è un concetto che si espanse insieme allo sviluppo del capitalismo commerciale europeo a partire dal XV secolo. Se un Paese appartenga al Terzo Mondo non dipende dalla sua collocazione geografica, ma dalla sua posizione oggettiva all’interno della struttura economica globale. Esso indica quei Paesi e quelle regioni che parteciparono alla formazione del mercato economico mondiale sotto condizioni di squilibrio. Da questo punto di vista, con lo spostamento del centro economico europeo verso l’Europa nord-occidentale nel XVI secolo, Polonia e l’intera Europa orientale furono effettivamente riconosciute da Immanuel Wallerstein come aree sottosviluppate all’interno dell’economia mondiale europea.
Parte III – La Palestina nella zona di confine Jin-Ji-Lu-Yu
Nel maggio del 1946, il People’s Daily , organo ufficiale del Partito Comunista nella zona di confine di Jin-Ji-Lu-Yu , pubblicò una serie di notizie strettamente collegate al Medio Oriente. Due settimane dopo la sua fondazione — avvenuta il 15 maggio con una tiratura di circa diecimila copie — il quotidiano dedicò la sua prima pagina a tre brevi comunicazioni provenienti dalla regione mediorientale. La prima riguardava i conflitti tra civili e truppe britanniche ad Alessandria d’Egitto; la seconda era un’informazione ripresa dall’agenzia Reuters sulle proteste dei paesi arabi contro la proposta anglo americana di trasferire centomila ebrei in Palestina; la terza trattava invece della riorganizzazione del governo libanese. Da quel momento in poi, il People’s Daily cominciò a seguire con attenzione lo sviluppo dei movimenti nazionali di indipendenza in Egitto e in Palestina. Fino alla fondazione della Repubblica Popolare Cinese, le fonti delle informazioni sulla questione mediorientale furono principalmente rappresentate da agenzie di stampa straniere e commenti apparsi su pubblicazioni sovietiche. Per contenuto, le notizie dell’epoca descrivevano soprattutto l’ascesa dei movimenti nazionali arabi, i crescenti conflitti tra governi come Egitto e Gran Bretagna, il ruolo del terrorismo ebraico sostenuto dagli Stati Uniti, e le lotte per l’abolizione dei trattati ineguali. Si trovavano anche analisi sull’effetto negativo del Trattato di alleanza anglo-iracheno del 1930 sull’indipendenza economica degli stati arabi, nonché alcune informazioni preliminari sui partiti comunisti presenti nel Medio Oriente — specialmente in Israele — e sul loro sostegno alle cause di indipendenza araba. Sebbene queste notizie fossero semplici ed essenziali, esse riuscivano comunque a stabilire un collegamento emotivo con l’esperienza storica cinese di lotta contro l’oppressione. Il giornale promuoveva una visione di unità nazionale araba — specialmente tra arabi ed ebrei — superando divisioni ideologiche e partitiche, e opponendosi insieme ai trattati iniqui e all’oppressione imperialista. Questo discorso politico si intrecciava direttamente con la lotta contro guerra e Chiang Kai-shek che vedeva protagonista il Partito Comunista in quel periodo. L’appello all’unità tra popoli oppressi offriva alla classe operaia cinese un modello internazionalista con cui confrontarsi, rendendo questa narrazione un importante punto di riferimento per il movimento comunista mondiale. Questa rappresentazione dei movimenti di liberazione arabi espandeva la questione dell’opposizione all’imperialismo dal contesto nazionale a una dimensione globale, arricchendo l’immaginario collettivo del popolo cinese e integrando una visione multiculturale entro un’unica cornice ideale: quella della “liberazione universale del popolo”. In questo quadro, la questione palestinese, emersa come uno dei temi centrali del dopoguerra, ricevette particolare attenzione da parte del People’s Daily. Il sionismo e l’emergere del nazionalismo arabo, così come i movimenti islamici modernizzatori, rappresentarono le radici storiche principali del conflitto arabo-israeliano post-bellico. Con il mutare dell’ordine internazionale successivo alla Seconda Guerra Mondiale — e in particolare con l’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto — il problema, originariamente interno all’Europa, divenne rapidamente uno dei nodi più delicati nell’evoluzione del nuovo ordine mondiale. Il 16 giugno 1946, il People’s Daily pubblicò una breve nota sull’istituzione del “Comitato per la Palestina” da parte degli Stati Uniti. Il comitato, creato il 11 giugno 1946 dal presidente Truman, aveva il compito di promuovere l’immigrazione di centomila ebrei in Palestina e la creazione di uno Stato ebraico indipendente. In quel periodo, Londra e Washington stavano ancora negoziando, nell’ambito dell’Anglo-American Committee of Inquiry , la questione della futura collocazione politica di Palestina e Israele. I due Paesi avevano però obiettivi diversi: mentre la Gran Bretagna cercava di mantenere la sua influenza nella regione attraverso un presunto sostegno morale al nazionalismo arabo, gli Stati Uniti intendevano ottenere consenso elettorale dalle comunità ebree interne e ampliare la propria influenza nel Medio Oriente. La nota del People’s Daily concludeva con un commento critico: “Sotto la pressione degli Stati Uniti, la Gran Bretagna ha accettato inizialmente l’ingresso di centomila ebrei (con retroterra finanziario statunitense) in Palestina, ma in seguito ha evitato di prendere posizione chiara. Questa azione dimostra inequivocabilmente l’espansione dell’influenza americana nel Medio Oriente”. Questa enfasi sugli interessi contrapposti tra vecchie e nuove potenze egemoni rifletteva abbastanza fedelmente l’atteggiamento generale del People’s Daily nei confronti della questione mediorientale tra il 1946 e il 1949. A partire dal 14 ottobre 1947, il giornale lanciò una rubrica intitolata “Dizionario per lettori informati”, destinata a spiegare periodicamente nuovi concetti sociali, politici, geografici, economici e di relazioni internazionali. La rubrica proseguì fino al 1958, toccando circa duecento argomenti. Non era l’unica sezione dedicata a tale scopo: altre rubriche, come “Discussione collettiva” o “Risposte ai lettori”, contribuirono anch’esse a diffondere nuovi termini e concetti. La prima menzione specifica del mondo arabo risaliva al 18 gennaio 1949, quando il People’s Daily, ormai organo ufficiale del Comitato Centrale del Partito nella Cina settentrionale, presentò ai propri lettori la definizione di “paesi arabi”, comprendenti Egitto, Iraq, Siria, Libano, Arabia Saudita, Yemen e Transgiordania. Nello stesso articolo fu descritta la nascita dello Stato di Israele nel 1947, in base alla decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 29 novembre. Lo Stato israeliano occupava più della metà della Palestina — una superficie pari a circa un ottavo della provincia dello Jiangsu. Fu inoltre introdotto il tema del Palestine Committee, formato da cinque potenze (tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Francia e un vago riferimento alla “Cina”), che non solo non riusciva a risolvere realmente la controversia arabo-ebraica, ma fungeva piuttosto da strumento per acquisire vantaggi petroliferi nella regione. Nei mesi seguenti, il “Dizionario per lettori informati” approfondì il concetto di “Dominion”, utilizzato per descrivere il modo in cui l’impero britannico manteneva il controllo coloniale attraverso la concessione formale di autonomia legislativa e amministrativa. Furono altresì descritte le situazioni di Marocco, Algeria, Tunisia e Transgiordania, per mostrare come le antiche potenze coloniali — Gran Bretagna e Francia — continuassero a esercitare il proprio dominio nel Medio Oriente. Infine, il People’s Daily fornì informazioni dettagliate sul sistema petrolifero della regione, illustrando come l’estrazione e il commercio del petrolio fossero legati agli interessi imperialisti globali.
Parte IV – Sostenere la rivoluzione mondiale attraverso la costruzione
Dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, il concetto di “rivoluzione mondiale” non fu interpretato come un semplice passaggio da una vittoria nazionale a un’espansione internazionalista. Al contrario, fu compreso come un processo storico-sociale che vedeva nella costruzione dello Stato socialista e nella trasformazione economica un evento simbolico all’interno del più vasto movimento globale di liberazione umana. Questa visione si accompagnava al tentativo di ridefinire la soggettività politica del popolo cinese attraverso una pratica culturale di “risveglio” e mobilitazione collettiva. Il People’s Daily, come principale strumento di propaganda del Partito Comunista, giocò un ruolo cruciale nel diffondere questa immagine. Da un lato, esso comunicò al pubblico le idee del Partito in varie forme; dall’altro, fornì informazioni che divennero parte integrante della conoscenza quotidiana del lettore medio, contribuendo alla formazione di una coscienza politica condivisa. L’ideale dell’internazionalismo proletario diventò un importante motore per la ricostruzione post bellica. In particolare, i movimenti di indipendenza nell’Asia, Africa e America Latina furono presentati come espressioni concrete di una lotta globale contro l’imperialismo — un modello che poteva essere riconosciuto e fatto proprio anche dal popolo cinese. Questo senso di appartenenza a una comunità internazionale di oppressi e ribelli fu rafforzato attraverso campagne mediatiche, discussioni organizzate tra i lavoratori, e soprattutto attraverso l’esperienza diretta delle lotte comuni. Un esempio significativo fu il movimento di sostegno all’Egitto durante la crisi del Canale di Suez nel 1956. Il People’s Daily dedicò ampio spazio agli eventi, pubblicando articoli analitici, notizie brevi, commenti di intellettuali e resoconti diretti dalla stampa araba. L’obiettivo era chiaro: collegare il destino dei popoli colonizzati a quello del popolo cinese, e dare forma a un sentimento internazionalista radicato nell’esperienza storica cinese stessa. In quel periodo, il giornale pubblicò storie di solidarietà tangibile: ad esempio, un carico di carne bovina e ovina prodotto in Cina arrivò in tempo per il Capodanno egiziano, o una famiglia di Shanghai scrisse una lettera aperta ai fratelli egiziani, dicendosi convinta che “l’acqua dei fiumi cinesi potesse essere domata per il bene del popolo”, e che quindi “anche gli egiziani avrebbero potuto gestire il Canale di Suez e completare la costruzione della diga di Assuan”. Questo tipo di narrazione riuscì a connettere l’immaginario del progresso tecnico-economico a una visione politica di cooperazione globale. La prospettiva internazionalista si espresse anche attraverso una serie di eventi culturali, tra cui festival cinematografici, mostre fotografiche e rappresentazioni artistiche dedicate al mondo arabo e ai paesi del Terzo Mondo. Dal 1955 in poi, film provenienti da Egitto, Siria, Iraq e Libano furono proiettati in Cina, mentre pellicole cinesi vennero distribuite nei circuiti arabi. Fu così possibile assistere a una reciproca circolazione di culture e immagini, che andava ben oltre la mera diplomazia ufficiale. Nel 1957, il Ministero della Cultura cinese organizzò una settimana del cinema egiziano, comprendente quattro lungometraggi e otto documentari, tra cui Le giornate di luglio, La battaglia nella valle, I nostri giorni felici e Vita e morte. Ai film si aggiunsero dibattiti, incontri con delegazioni cinematografiche e interviste a registi e attori celebri, come Omar Sharif e Faten Hamama. La proiezione di queste opere non aveva solo un fine artistico o commerciale: essa mirava a rafforzare il legame tra i popoli e promuovere la pace mondiale attraverso la comprensione reciproca. Anche la partecipazione del popolo cinese alle campagne internazionali di sostegno ai movimenti anti imperialisti divenne un momento centrale di identità collettiva. Nel luglio del 1958, dopo il rovesciamento del regime filo-occidentale in Iraq e l’intervento militare statunitense e britannico in Libano e Giordania, milioni di cinesi si mobilitarono in piazza per manifestare a favore dei popoli mediorientali. Gli slogan parlavano chiaro: “Produrre più acciaio e ferro per colpire il lupo imperialista!”, “Uniti con i lavoratori arabi, costruiamo insieme la pace mondiale!” e “La terra coltivata stanotte porterà forza al popolo cinese domani”. Queste mobilitazioni non erano soltanto dimostrazioni di solidarietà esterna: esse si intrecciavano profondamente con i processi di industrializzazione e modernizzazione in corso nel paese. Il messaggio era duplice: da un lato, il popolo cinese doveva costruire la propria nazione; dall’altro, tale costruzione era parte di un impegno globale per il riscatto dei popoli oppressi. Questa idea fu ulteriormente sviluppata da Mao Zedong, che negli anni ’60 propose una rilettura del concetto di “zona intermedia” (intermediate zone), anticipando quella che sarebbe diventata la teoria dei “Tre Mondi”. Secondo Mao, l’Asia, l’Africa e l’America Latina costituivano la prima zona intermedia, mentre l’Europa occidentale, il Canada, l’Australia e il Giappone formavano la seconda. Entrambe, insieme al blocco sovietico e agli Stati Uniti, erano coinvolte in un confronto globale per il controllo dell’ordine mondiale. Durante un incontro con la delegazione siriana nel marzo del 1965, Mao dichiarò chiaramente: “Noi siamo paesi amici, con obiettivi comuni: primo, combattere l’imperialismo; secondo, costruire il nostro paese”. Questa visione faceva eco al discorso sull’unità dei popoli oppressi, ma lo integrava con una strategia precisa: utilizzare le contraddizioni tra le potenze capitaliste per avanzare il progetto comunista senza cadere in una guerra nucleare totale. Per Mao, infatti, il conflitto tra USA e URSS non era necessariamente destinato a sfociare in un conflitto armato su scala globale. Al contrario, il campo socialista poteva approfittare di tali divisioni per rafforzarsi internamente e ampliare la sua influenza verso il Sud globale. Negli anni seguenti, il rapporto con il mondo arabo si intensificò. Durante la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, Mao ribadì il valore strategico del Medio Oriente come punto nevralgico dell’imperialismo globale. Egli sottolineò che la chiusura del Canale di Suez e l’interruzione del flusso petrolifero rappresentavano colpi gravi per il sistema capitalistico mondiale. Inoltre, osservò come paesi tradizionalmente filo-occidentali, come Arabia Saudita e Giordania, cominciassero a unirsi a Egitto e Siria per contrastare l’aggressione israelo-statunitense. Tuttavia, il sostegno cinese ai movimenti arabi non era mai astratto né ideologico. Esso si basava su una precisa analisi storica e politica, e si esprimeva attraverso forme concrete di collaborazione. Questo atteggiamento rifletteva l’idea che il popolo cinese dovesse “costruire il proprio paese, e al contempo stare al fianco dei fratelli arabi nella lotta anticoloniale”. Questa concezione dell’internazionalismo, fondata su solidarietà materiale e unità politica, rimase centrale fino alla fine degli anni '70. Essa influenzò non solo la politica estera cinese, ma anche la percezione del mondo da parte del popolo cinese. Le guerre di liberazione in Algeria, Palestina, Vietnam e Yemen non furono mai viste come distanti: esse divennero parte integrante dell’immaginario collettivo e della coscienza internazionalista del cittadino medio. Questa consapevolezza fu rafforzata da una rete di iniziative educative, culturali e diplomatiche. A livello locale, i comitati di quartiere organizzavano serate culturali, letture di poesie arabe, concerti e spettacoli teatrali che raccontavano le battaglie palestinesi e i sacrifici dei contadini vietnamiti. Tutto ciò contribuì a creare un senso di contemporaneità internazionalista: il popolo cinese non viveva solo dentro i confini nazionali, ma parte del suo destino era intrecciato con quelle “forze terzomondiste” che combattevano per la dignità e l’autodeterminazione. All’interno di questo contesto, il concetto di internazionalismo perse la sua dimensione puramente ideologica per assumere un carattere pratico, sociale e persino emotivo. La costruzione del socialismo in Cina divenne un atto di resistenza globale; la crescita economica, una forma di supporto alla lotta anti-imperialista; e il lavoro quotidiano, una sorta di contributo alla causa universale della liberazione. Mao Zedong riassunse questa visione nel 1963, durante un incontro con una delegazione albanese, quando introdusse per la prima volta il concetto di “Terzo Mondo”. Egli distinse due tipi di “terzo mondo”: uno comprendente Asia, Africa e America Latina; l’altro, riferendosi al mercato comune europeo. Questa distinzione segnò una svolta nella comprensione strategica del mondo da parte cinese. Il concetto di internazionalismo, ormai maturo, non riguardava più solo la classe operaia, ma il popolo intero.
Parte V – Costruire una simultaneità internazionalista
La costruzione di un senso di comunità internazionale tra i popoli oppressi non fu mai solo un discorso teorico, ma si manifestò attraverso una serie di pratiche concrete che diedero vita a una “simultaneità internazionalista” nel quotidiano. Questa sensazione di condivisione globale del destino politico fu rafforzata da campagne mediatiche, eventi culturali e movimenti di massa che collegarono direttamente l’esperienza cinese a quella dei movimenti anti-imperialisti in Asia, Africa e America Latina. Un esempio significativo fu il ruolo svolto dal People’s Daily nel diffondere notizie su film, festival, mostre fotografiche e documentari provenienti dal mondo arabo. Dal 1955 in poi, eventi come la Settimana del Cinema Egiziano (1957), il Festival del Cinema Afro-Asiatico (1964) e le proiezioni dedicate al cinema siriano, iracheno e tunisino divennero strumenti essenziali per formare una coscienza collettiva all’interno della Cina. Questi eventi furono accompagnati da traduzioni di poesie, storie popolari e saggi politici che resero il Medio Oriente parte integrante dell’immaginario rivoluzionario cinese. L’interesse verso la cultura araba non si limitò alla ricezione passiva: la Cina produsse anche film, opere teatrali e romanzi che raccontavano le lotte palestinesi, egiziane o libanesi, adattandole al contesto locale. Alcuni di questi lavori furono distribuiti in tutto il paese e utilizzati nelle scuole, nei circoli operaia e nei comitati rurali per educare alla solidarietà internazionale. L’idea era chiara: il popolo cinese doveva imparare a riconoscersi negli altri popoli in lotta, sentire empatia per i loro sacrifici e mobilitarsi in loro sostegno. Nel 1956, due film cinesi — Il messaggio delle cinque penne e La strategia sul Monte Hua — furono proiettati in Egitto, riscuotendo grande successo tra il pubblico. La stampa egiziana li interpretò come “un chiaro segnale del sostegno del popolo cinese alla giusta causa del popolo egiziano”. Inoltre, articoli dell’agenzia Xinhua ripresi dai giornali locali enfatizzarono questo legame simbolico e materiale. Uno dei momenti più significativi fu l’incontro tra il presidente Nasser e una delegazione cinematografica cinese nel settembre 1957. Il presidente egiziano, noto per non aver mai partecipato a nessun festival cinematografico prima di quel momento, assistette personalmente alla proiezione del film La benedizione, organizzata nell’opera di Il Cairo, decorata con lanterne rosse e bandiere cinesi ed egiziane. Alla fine della serata, Nasser ricevette i membri della delegazione, lodando la capacità del cinema cinese di “raccontare storie di resistenza e speranza”. Pochi giorni dopo, sua moglie organizzò un tè ufficiale con le attrici Bai Yang e Qin Yi, insieme ai loro figli, creando un momento di incontro umano che andava oltre la diplomazia istituzionale. Questo tipo di narrazione emotiva fu fondamentale per radicare l’internazionalismo nel tessuto sociale cinese. Al contempo, il Partito Comunista promosse una serie di campagne interne per collegare il lavoro quotidiano al sostegno alle lotte globali. Nel luglio 1958, durante il periodo di sostegno alla rivoluzione irachena, milioni di cittadini cinesi parteciparono a manifestazioni di massa in piazza Tiananmen. Essi dichiararono apertamente di voler stare a fianco dei popoli arabi nella lotta contro l’imperialismo. Questo coinvolgimento non si limitò alle grandi città: anche operai, contadini e studenti in zone rurali si mobilitarono per dimostrare il proprio supporto. Gli slogan erano diretti: “Più acciaio, meno imperialismo!”, “Lavoriamo stanotte per dare forza al domani!” e “Ogni zolla scavata oggi è un colpo all’Occidente!” Questa connessione tra produzione nazionale e lotta internazionale fu ulteriormente rafforzata attraverso il sistema educativo. Nei manuali scolastici, negli incontri sindacali e nelle riunioni politiche, gli insegnanti e i dirigenti spiegavano che il lavoro in fabbrica, nei campi o nelle scuole aveva un valore universale: ogni pezzo prodotto, ogni campo arato, ogni parola studiata, contribuiva a “sostenere la lotta globale per la pace e la libertà”. Inoltre, questa visione fu estesa anche al livello religioso. Il Partito Comunista cercò di coinvolgere attivamente le minoranze musulmane nella costruzione di una coscienza internazionalista. Durante il periodo di sostegno all’Iraq nel 1958, il vicepresidente dell’Associazione Islamica Cinese, Da Pusheng, tenne un discorso pubblico in cui dichiarò: “Noi musulmani cinesi e il popolo cinese intero celebriamo con entusiasmo la grande vittoria del popolo iracheno”. Egli proseguì sottolineando che il comportamento degli Stati Uniti era “completamente demoniaco”, una provocazione arrogante ai danni dei popoli arabi e una minaccia alla pace mondiale. Richiamandosi al Corano, egli citò un versetto chiave: “Combattete contro coloro che vi attaccano, ma non trasgredite”. (Sura II, versetto 190) Secondo Da Pusheng, questa era una guerra santa — non nel senso letterale del termine, ma come lotta per la dignità, la pace e il rispetto reciproco tra nazioni. Per lui, difendere i valori universali della pace e della giustizia era una forma di “jihad”, intesa come dovere morale e storico di tutti i popoli oppressi. La collaborazione tra intellettuali islamici e il Partito Comunista portò alla pubblicazione di articoli, pamphlet e dibattiti che reinterpretarono i testi sacri alla luce della lotta anticoloniale. Nel 1958, Ma Jian, studioso islamico, pubblicò un articolo sul People’s Daily intitolato Rileggere il Corano. In esso, egli propose una lettura moderna del libro sacro, in linea con l’evoluzione storica e il progresso sociale. Citando il versetto: “Non litigate tra voi, altrimenti perdereste coraggio e slancio”. (Sura VIII, versetto 46) Ma Jian sostenne che l’unione tra i popoli oppressi era la via principale per affrontare l’imperialismo. Inoltro, criticò duramente quei governi che, pur appartenendo al blocco arabo, si schieravano con le potenze occidentali, contraddicendo i principi fondamentali dell’Islam: “Aiutatevi l’un l’altro nel bene e nella pietà, non aiutatevi nell’ingiustizia e nel peccato”. (Sura V, versetto 2) Per molti musulmani cinesi, questa interpretazione del Corano come base ideologica per il sostegno alla lotta anti-imperialista fu una novità importante. Essa permise di stabilire un ponte tra fede e politica, mostrando che la lotta per la liberazione nazionale non era in contrasto con i valori religiosi, ma anzi ne era una diretta espressione. Negli anni successivi, molte moschee e centri islamici cominciarono a organizzare letture collettive di articoli politici e commenti religiosi che collegavano la lotta araba a quella cinese. Molti fedeli raccontarono di essere stati in pellegrinaggio in Arabia Saudita o in Siria, e di aver visto con i propri occhi “il calore e l’entusiasmo del popolo arabo per la Cina rivoluzionaria”. Ad esempio, l’imam Yang Pin, proveniente dalla zona di Tongzhou, descrisse uno spettacolo teatrale realizzato da bambini egiziani per una delegazione giovanile cinese. Lo spettacolo, intitolato Cacciare i soldati inglesi, fu accolto con entusiasmo da molti giovani cinesi, che lo videro come un parallelo diretto alla Resistenza anti-giapponese. Analogamente, l’imam Chen Guangyuan, tornato da un viaggio in Siria, parlò di cartelli che recitavano frasi come: “Fratelli, l’epoca dello schiavismo è finita!” Queste testimonianze furono diffuse attraverso la stampa comunista e utilizzate per rafforzare l’immagine di unità tra i popoli oppressi, superando differenze linguistiche, etniche e religiose. Questa costruzione di una comunità internazionale di lotta fu completata da una vasta gamma di attività artistiche e culturali. Poemi, canzoni, opere teatrali e persino rappresentazioni folkloristiche furono create per collegare le esperienze di indipendenza cinese con quelle arabe. La formula era semplice: usare l’arte come arma per il sostegno politico. Durante il Grande Balzo in avanti, questa pratica fu intensificata. Si parlò di “fare poesia come arma, cantare come tamburo di guerra”, per sostenere “la lotta dei fratelli arabi”. Editori come la People's Literature Publishing House, la Writers Publishing House e la New Literature Press pubblicarono numerose antologie poetiche e raccolte di immagini che raccontavano le battaglie palestinesi, i conflitti urbani egiziani e le proteste contadine marocchine. Molti di questi materiali furono distribuiti come propaganda urgente nelle fabbriche e nei villaggi. Tra queste forme di comunicazione, spiccavano le performance teatrali itineranti, i racconti orali e le canzoni popolari. Le truppe teatrali locali, soprattutto nelle aree rurali, mettevano in scena drammi come I ragazzi di Libano, Le donne di Palestina o La battaglia di Suez, usando scenari semplici e linguaggio accessibile. I testi erano spesso accompagnati da musica tradizionale cinese, mescolata a ritmi mediorientali, per generare un senso di familiarità emotiva tra i pubblici diversi. Un altro esempio fu la diffusione di “canzoni di resistenza”, che mischiavano elementi musicali cinesi con parole di lotta palestinese. Questi brani, diffusi via radio e ripetuti nei comitati di quartiere, divennero parte integrante della coscienza politica delle nuove generazioni. Questa strategia culturale ebbe effetti visibili. La percezione del Terzo Mondo, specialmente del Medio Oriente, cambiò profondamente tra i cittadini comuni. Essa non era più un argomento astratto o distante, ma qualcosa che viveva dentro casa, nelle scuole, nelle fabbriche e nelle piazze. L’internazionalismo non era più un concetto retorico, ma una pratica politica reale, incorporata nella vita quotidiana. Lo stesso Mao Zedong, nel suo discorso del 1963, ribadì che la lotta per la pace era una questione universale, che richiedeva l’unione di tutte le forze possibili. Disse: “I popoli oppressi devono unirsi. Dobbiamo usare le loro divisioni a nostro vantaggio”. Questa idea fu sviluppata ulteriormente nel 1964, quando Mao ridefinì il concetto di “zone intermedie”, distinguendo tra una prima composta da Asia, Africa e America Latina, e una seconda comprendente Europa, Canada, Australia e Giappone. Secondo Mao, il compito principale del socialismo cinese era di collegarsi alla prima, usando la lotta anti-imperialista come punto di unione. Nel marzo 1965, in un incontro con il ministro degli esteri siriano Hassan Murawwid, Mao ribadì: “Siamo paesi amici, con obiettivi comuni: primo, combattere l’imperialismo; secondo, costruire i nostri paesi”. Questa visione fu ribadita nel 1967, durante il conflitto arabo-israeliano. Mao osservò che la guerra era stata combattuta principalmente per il controllo del petrolio, e che essa aveva posto gli imperi anglo americani in una posizione molto difficile. Secondo lui, i paesi arabi potevano infliggere gravi colpi all’Occidente chiudendo il Canale di Suez e interrompendo i flussi petroliferi. Questo avrebbe indebolito il motore dell’economia capitalistica globale. Con il tempo, l’idea che la lotta anti-imperialista fosse una responsabilità condivisa si consolidò sempre di più. Fu così che la Cina, pur non avendo interessi economici diretti nel Medio Oriente, divenne uno dei maggiori sostenitori politici e morali del mondo arabo. Il popolo cinese non vedeva più l’indipendenza come un fatto solo locale, ma come un processo globale in cui ogni individuo poteva giocare un ruolo. Questa consapevolezza fu rafforzata da una serie di iniziative artistiche, educative e diplomatiche che fecero dell’internazionalismo una pratica quotidiana. La costruzione del socialismo in Cina non era solo un atto di emancipazione nazionale, ma anche un contributo alla liberazione mondiale.
Conclusione
La costruzione dell’internazionalismo cinese nel dopoguerra, specialmente dopo il 1949, non fu soltanto un aspetto della politica estera, ma una componente centrale del processo di formazione dell’identità politica del “popolo cinese”. Questo senso di comunità globale tra i popoli oppressi fu rafforzato da una serie di pratiche concrete: la traduzione di testi arabi, la diffusione di film e documentari, le campagne di sostegno alla Palestina, al Vietnam e al Congo, e l’uso della cultura come strumento di educazione politica. L’internazionalismo non fu mai ridotto a mero slogan ideologico, né a una forma di propaganda sovietica o statunitense. Esso fu invece una dimensione viva del lavoro quotidiano, della lotta di classe e della costruzione dello stato. Attraverso la mobilitazione collettiva, il popolo cinese fu formato a vedere sé stesso non solo come soggetto della propria storia, ma come parte di una battaglia più ampia per la pace, la dignità e l’autodeterminazione dei popoli oppressi. Questa concezione dell’internazionalismo fu decisiva per il consolidamento del Partito Comunista come guida del paese, e per la costruzione di un’identità politica nuova, fondata sulla solidarietà globale. Essa influenzò il modo in cui la Cina si rapportò al resto del mondo, e come il resto del mondo vide la Cina — non più come semplice paese asiatico, ma come voce autorevole del Terzo Mondo. La visione del Terzo Mondo come comunità di popoli uniti dalla lotta comune contro l’imperialismo divenne una costante nella retorica del Partito Comunista. Essa fu ribadita da Mao Zedong nel 1963, e rimase centrale fino agli anni '70. L’ideale di un ordine mondiale alternativo, fondato sulla cooperazione tra ex-colonie e paesi socialisti, fu un pilastro del pensiero rivoluzionario cinese. Esso mise in discussione la visione eurocentrica del mondo, proponendo un modello multipolare, in cui il centro non era più l’Europa o gli Stati Uniti, ma i popoli in lotta per la libertà. Questa ridefinizione dell’internazionalismo come prassi quotidiana fu possibile grazie alla combinazione di tre fattori: 1. La continuità tra l’esperienza rivoluzionaria cinese e quella dei movimenti anti-imperialisti — il popolo cinese si riconosceva nei popoli arabi, africani e latinoamericani. 2. L’uso sistematico della cultura come strumento di identificazione emotiva — il cinema, la musica e la letteratura furono strumenti chiave per far vivere la lotta internazionale come parte della propria. 3. La traduzione dell’internazionalismo in termini di costruzione nazionale — il lavoro quotidiano diventò un atto di sostegno globale, e la costruzione dello Stato cinese fu vista come parte integrante della lotta per il riscatto universale. Questo modello di internazionalismo, sebbene specifico al contesto storico, ha lasciato un’eredità politica e culturale che ancora oggi influenza le relazioni cinesi con il Sud globale. La visione di una comunità internazionale di popoli oppressi, uniti da una storia comune di resistenza, continua a informare la narrativa diplomatica e politica cinese.